venerdì 18 luglio 2014

Redenzione e Resurrezione

A detta di qualcuno, precisando come sia la Croce a operare la Redenzione dell'umanità, si commetterebbe un grave "errore teologico dalle conseguenze disastrose", perché si opererebbe una "disgiunzione dei momenti che compongono il Mistero Pasquale" (guai a parlare di Croce senza Resurrezione!).

Per intenderci, non si tratta di disgiungere la Croce (la Passione) e la Risurrezione: certamente entrambe sono ricomprese nel riscoperto Mistero Pasquale di Cristo (come se in passato non lo si conoscesse a sufficienza, ma oggi tra i teologi va di moda dire così...) e, ancor più certamente, l'una non ha senso senza l'altra: semplicemente, si tratta di dare ad ognuna il giusto significato e il Dottore Angelico lo fa in modo mirabile. Il fatto che, da diversi anni, si sia (volutamente) messa da parte la scolastica è una della cause principali della confusione che regna nel mondo cattolico, tra i fedeli e purtroppo anche tra il clero che ha ormai perso completamente le solide fondamenta che la scolastica offriva. Ma questo è un altro discorso...
Parte III, Questio 49, Articolo 1
Se la passione di Cristo ci abbia liberati dal peccato


[...]

Dimostrazione:
La passione di cristo è la causa propria della remissione dei peccati per tre motivi.
Primo, quale incentivo alla carità. Poiché, come scrive l'Apostolo [Rm 5,8s], «Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». Ora, con la carità noi conseguiamo il perdono dei peccati, secondo le parole evangeliche [Lc 7,47]: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato».
Secondo, la passione di cristo causa la remissione dei peccati sotto forma di redenzione. Essendo egli infatti il nostro capo, con la sua passione, accettata per amore e obbedienza, ha liberato dal peccato noi che siamo le sue membra, offrendo tale passione come prezzo del riscatto: come se uno riscattasse se stesso da un peccato commesso con i piedi mediante un'opera meritoria compiuta con le mani. Come infatti è unico il corpo fisico formato di membra diverse, così la Chiesa, che è il corpo mistico di Cristo, costituisce come un'unica persona insieme con il suo capo, che è Cristo.
Terzo, a modo di efficienza: poiché il corpo nel quale Cristo ha subìto la passione è «strumento della divinità», per cui i suoi patimenti e le sue azioni agiscono con la virtù di dio nell'eliminazione del peccato.

Analisi delle obiezioni:
1. È vero che Cristo non soffrì come Dio, tuttavia la sua carne era strumento della divinità. E così la sua passione partecipa della potenza divina nell'eliminazione del peccato, come si è detto [nel corpo].
2. La passione di Cristo, pur essendo corporale, riceve tuttavia una certa virtù spirituale grazie alla divinità a cui la carne è unita come uno strumento. Ed è in forza di questa virtù che la passione di Cristo causa la remissione dei peccati.
3. Con la sua passione cristo ci ha liberati dai nostri peccati in maniera causale, cioè istituendo la causa di tale liberazione, in modo che potessero venire rimessi tutti i peccati in qualsiasi momento, siano essi passati, presenti o futuri: come se un medico preparasse una medicina capace di guarire qualsiasi malattia, anche in futuro.
4. Dato che la passione di Cristo fu posta nel tempo come una certa causa universale per la remissione dei peccati, come si è detto [ad 3], è necessario che essa venga applicata ai singoli per la remissione dei loro peccati. e ciò avviene mediante il battesimo, la penitenza e gli altri sacramenti, i quali devono le loro virtù alla passione di cristo, come vedremo in seguito [q. 62, a. 5].
5. È anche attraverso la fede che la passione di Cristo ci viene applicata in modo che possiamo riceverne i frutti, secondo le parole di S. Paolo [Rm 3,25]: «[Dio] lo ha posto come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue».
Ora, la fede con la quale siamo mondati dal peccato non è la fede informe, che può coesistere con il peccato, ma la fede informata dalla carità: per cui la passione di Cristo ci viene applicata non solo quanto all'intelligenza, ma anche quanto alla volontà. E anche in questo modo i peccati vengono rimessi in virtù della passione di cristo.

Parte III, Questio 53, Articolo 1
Se fosse necessario che Cristo risorgesse


[...]

Dimostrazione:
Era necessario che Cristo risorgesse, per cinque motivi.
Primo, per l'affermazione della giustizia divina, alla quale spetta esaltare coloro che per Dio si umiliano, secondo le parole evangeliche [Lc 1,52]: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha esaltato gli umili». Avendo perciò Cristo umiliato se stesso fino alla morte di croce per amore e ubbidienza verso Dio, era conveniente che fosse da lui esaltato fino alla gloria della risurrezione.
Per cui il Salmista [Sal 139,2], secondo le spiegazioni della Glossa [interlin.], così parla in sua persona: «Tu hai conosciuto», cioè approvato, «la mia prostrazione», ossia l'umiliazione e la passione, «e la mia risurrezione», cioè la glorificazione nella risurrezione.
Secondo, per l'istruzione della nostra fede. Poiché dalla sua risurrezione viene confermata la nostra fede nella divinità di cristo: come infatti dice S. Paolo [2 Cor 13,4], «egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio». Da cui anche le altre parole dell'Apostolo [1 Cor 15,14]: «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione, ed è vana anche la vostra fede». E quelle del Salmista  [Sal 30,10]: «Quale utilità nel mio sangue», cioè «nell'effusione del mio sangue», «mentre discendo», come percorrendo una scala di mali, «verso la corruzione?». Come per dire: nessuna. «Se infatti», come spiega la Glossa [interlin. e ord. di Agost.], «io non risorgo subito, e il mio corpo si corrompe, io non evangelizzerò e non riscatterò nessuno».
Terzo, a sostegno della nostra speranza. Poiché vedendo risuscitare Cristo, che è il nostro capo, anche noi speriamo di risorgere. Da cui le parole di S. Paolo [1 Cor 15,12]: «Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?». E Giobbe [Gb 19,25.27 Vg] affermava: «Io so», con certezza di fede, «che il mio Redentore», cioè Cristo, «vive», essendo risuscitato dai morti, e quindi «l'ultimo giorno mi rialzerò da terra: questa speranza è riposta nel mio seno».
Quarto, per la formazione morale dei fedeli, in base all'affermazione di S. Paolo [Rm 6,4]: «Come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova». E ancora [Rm 6,9.11]: «Cristo risuscitato dai morti non muore più. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio».
Quinto, per il completamento della nostra salvezza. poiché come morendo portò i nostri mali per liberarci da essi, così volle essere glorificato con la risurrezione per assicurarci il bene, secondo quelle parole [Rm 4,25]: «È stato messo a morte per i nostri peccati, ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione».

Analisi delle obiezioni:
1. Sebbene Cristo non fosse caduto a motivo del peccato, era però caduto a motivo della morte: poiché come il peccato è una caduta rispetto all'onestà, così la morte è una caduta rispetto alla vita. Per cui si possono attribuire a Cristo le parole del profeta [Mi 7,8]: «Non gioire della mia sventura, o mia nemica! Se sono caduto mi rialzerò». Similmente poi, sebbene il corpo di Cristo non si sia disfatto con l'incenerimento, tuttavia la separazione dell'anima dal corpo fu una specie di disfacimento.
2. Dopo la morte di Cristo la divinità rimase unita alla sua carne con l'unione ipostatica, ma non con un'unione naturale come quella con cui l'anima è unita al corpo per costituire la natura umana.
Per il fatto quindi che il corpo di Cristo si riunì all'anima fu elevato a uno stato superiore nell'ordine della natura, pur senza raggiungere uno stato superiore nell'ordine dell'ipostasi.
3. Propriamente parlando, la passione di cristo operò la nostra salvezza quanto alla rimozione dei mali, ma la risurrezione la operò quale inizio ed esemplare dei beni [promessi].
Onestamente, tutto mi sembra molto chiaro e conferma quanto da tempo solo pochissimi ormai vanno affermando: il Sacrificio, cioè la Croce, o per meglio dire, la Passione ripara l'offesa al Padre e redime l'umanità dal peccato (motivo per il quale i cattolici hanno il Crocifisso come simbolo, non la sola Croce, come i protestanti...). La Risurrezione, che non va vista come un evento a sé stante, completa la nostra salvezza (come dice il punto quinto della dimostrazione), mette in opera e perpetua i frutti che la Croce ci ha ottenuti.

giovedì 16 gennaio 2014

La acrobazie dell'Institutio Generalis

A distanza di un po' di tempo (troppo) riprendo il filo del discorso iniziato con questo post Riparazione e SS. Eucaristia (e prima ancora in Gesù si è incarnato per andare sulla Croce?) e lo faccio riprendendo il paragrafo H del primo capitolo dello Studio critico del Novus Ordo Missae di Arnaldo Vidigal Xavier de Silveira (reperibile qui). Certamente, altri teologi e studiosi avranno trattato lo stesso tema ma, quantomeno nella bibliografia recente, non ho trovato chi analizzi la questione in maniera diretta come il prof. de Silveira.
Il memoriale della Resurrezione e dell’Ascensione

Uno dei mezzi impiegati dagli eretici dei nostri tempi per dissimulare il carattere sacrificale e propiziatorio della messa, consiste nell’accentuare eccessivamente il fatto (reale, ma subordinato) che la messa rievoca non solo la morte di Nostro Signore, ma anche la Resurrezione e l’Ascensione.
Noi diciamo che la messa ricorda la Resurrezione e l’Ascensione solo in maniera subordinata, poiché nella sua realtà sacrificale e propiziatoria e nei suoi elementi simbolici essenziali, la messa è innanzitutto e direttamente il rinnovamento del sacrificio della croce. È per questo che essa richiama alla mente soprattutto la morte di Nostro Signore. Tuttavia, come nel mistero del Calvario, che ha propriamente realizzata la nostra Redenzione, erano implicati anche tutti gli altri misteri e tutti gli altri avvenimenti della vita di Cristo, si può e si deve ritenere che la messa richiama anche, ma in maniera subordinata, la Resurrezione (80), l’Ascensione, il fatto che Nostro Signore si è assiso alla destra dell’eterno Padre, ecc. 

L’"Institutio", nell’edizione del 1969, sembra ignorare questa distinzione, provocando in tal modo una confusione dei concetti.  

Così la messa, nel n° 2, è chiamata il "memoriale della Passione e Resurrezione" di Cristo; nel n° 48 si legge che nel corso dell’ultima cena "Cristo istituì il memoriale della sua morte e della sua resurrezione" (81); nel n° 55 si dice che immediatamente dopo la Consacrazione, "la Chiesa celebra il memoriale di Cristo, ricordando principalmente la sua santa Passione, la sua gloriosa Resurrezione e la sua ascensione al cielo"; nel n° 55d, si afferma che nell’ultima cena, Nostro Signore "istituì il sacramento della Passione e della Resurrezione" (82); il n° 335 definisce la messa "il sacrificio eucaristico della Pasqua di Cristo", e i nn. 7 e 268 dichiarano che nella messa celebriamo il "memoriale del Signore".  

I commentatori della B.A.C. confermano i timori che abbiamo espressi prima. Essi manifestano un’avversione particolare per l’accento di santa e sacrificale tristezza che caratterizza la messa tradizionale, anche nei giorni di festa. Questa tendenza a ridurre l’Eucaristia ad una celebrazione gioiosa che esprimerebbe solo allegrezza, diventa evidente nel seguente paragrafo:  

"Incoraggiare perché si dia al canto una grande importanza è più che opportuno (n° 19 dell’"Institutio"). Questo perché l’Eucaristia è il sacramento della Pasqua del Signore, l’attesa del suo glorioso ritorno e insieme una gioiosa celebrazione del trionfo di Cristo che è già stato realizzato e che tutta la Chiesa attende. Il canto è l’espressione naturale di questa gioia" (83).
Passando poi in rassegna, in maniera molto minuziosa, tutte le singole modifiche apportate all'Institutio Generalis Missale Romanum tra l'edizione del 1969 e quella del 1970, al capitolo 4, paragrafo 10, il prof. De Silveira riporta:
L’inizio del n° 48 presenta adesso il seguente testo: 
"Nell’ultima Cena, Cristo istituì il sacrificio e convito pasquale, per mezzo del quale è reso di continuo presente nella Chiesa il sacrificio della Croce, allorché […]" (53). 
Come si vede, l’espressione "commemorazione della sua morte e della sua resurrezione" è stata sostituita dall’espressione "sacrificio e convito pasquale", facendo anche riferimento al sacrificio della Croce. Tuttavia, la già segnalata ambiguità annessa al termine "presenza", rimane (54). D’altra parte, sfortunatamente, non si dice che il sacrificio è propiziatorio: questa precisazione appare solo nel n° 2 del proemio. Stando così le cose, la modifica introdotta al n° 48 non è tale da permettere che si possa cambiare sostanzialmente l’apprezzamento  sul valore dell’"Institutio".
Le critiche che si sollevarono nel 1969 e che portarono alle modifiche dell'Institutio del 1970, confermano proprio i timori che vado esprimendo e meditando da tempo: quel che trovo veramente strano è che siano pochi gli studiosi cattolici (laici e non) che se ne preoccupano.

Come già ho avuto modo di fare notare, a conferma di tutto questo, si faccia attenzione alla traduzione di questa famosa orazione (che segue, per esempio il Tantum Ergo nella Benedizioni Eucaristiche):

Deus, qui nobis sub sacramento mirabili, passionis tuæ memoriam reliquisti: tribue, quæsumus, ita nos corporis et sanguinis tui sacra mysteria venerari, ut redemptionis tuæ fructum in nobis iugiter sentiamus. Qui vivis et regnas in sæcula sæculorum.

Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell'eucarestia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa' che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo corpo e del tuo sangue, per sentire sempre in noi i benefici della tua redenzione. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.

Mentre le vecchie e ben più fedeli traduzioni, che rendevano - giustamente! - passione per il latino passionis.

Abbiamo insomma, un Sacrificio edulcorato e una Redenzione ormai totalmente riassorbita e ricompresa nella Risurrezione.

mercoledì 11 settembre 2013

L'adultera e la pena di morte

16 marzo 2013, sabato mattina. Mi reco in chiesa per recitare il Santo Rosario quotidiano, come mi capita di fare quando gli impegni me lo permettono. Terminata la preghiera, mi dirigo verso la porta e scorgo il foglietto degli avvisi parrocchiali già pronto e in bella vista per il giorno dopo, Domenica V del Tempo Ordinario, Anno C.

Il brano del Santo Vangelo è molto noto:
Gv 8, 1-11 - In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù disse: “Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più”.
 Ed ecco il commento:
L’insegnamento di Gesù non si basa sull’osservanza della legge, ma sull’offerta del suo amore. Per questo il suo insegnamento non viene imposto, ma offerto. All’entusiasmo della folta che ascolta Gesù gli scribi e i farisei reagiscono preparando una trappola. “Gli condussero una donna sorpresa in adulterio”. Il tema di questo brano è: in quale  Dio credere? Nel Dio legislatore, quello che stabilisce le leggi e che punisce con la pena di morte? O nel Dio creatore, quello che crea la vita, la ama e la difende a oltranza?
La reazione di Gesù è sorprendente.
“Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Perché Gesù scrive per terra? La risposta l’abbiamo nel libro del profeta Geremia, al capitolo 17, versetto 13, dove il profeta scrive “O speranza di Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi, quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere”, scritti per terra. Una maniera per indicare che sono già polvere, cioè sono già nei regno dei morti, perché hanno abbandonato il Signore, fonte d’acqua viva! Chi non ama rimane nella morte, chi nutre sentimenti di morte è già morto. Allora l’azione profetica di Gesù di scrivere per terra indica che li iscrive nei regno dei morti, sono già dei morti.
“Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo una pietra contro di lei»”.
Quindi Gesù dice chi se la sente di ammazzarla, chi è senza peccato, esegua la sentenza. Poi si china di nuovo e scrive per terra. “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno”, all’inizio erano compatti quando si trattava di accusare, adesso che si tratta di scappare, se ne vanno via alla chetichella, uno per uno, “cominciando dai più anziani”. Qui “anziani” non significa “i vecchi”. Il termine greco presbitero indica i componenti del sinedrio, massimo organo giuridico di Israele. “Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo”. Ed ecco l’atteggiamento sorprendente di Gesù: "Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella rispose: «Nessuno, Signore».
S. Agostino, commentando questo brano ha un’espressione bellissima, dice “rimangono la misera e la misericordia”. Gesù, l’unico nel quale non c’è peccato, le dice “«Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più»”. Gesù non perdona la donna, la donna è già perdonata, ma Gesù le comunica la forza per tornare a vivere.
Analizziamolo. L’autore esordisce così:
L’insegnamento di Gesù non si basa sull’osservanza della legge, ma sull’offerta del suo amore. Per questo il suo insegnamento non viene imposto, ma offerto.
Il Gesù che ci viene presentato da queste poche parole sarebbe quindi un Gesù noncurante della Legge di cui il clero del tempo sarebbe dovuto essere fedele custode: è del tutto evidente che così non può essere e ciò lo si apprende dalle sue stesse parole in questo passo del Vangelo di Matteo:
Mt 5, 17-19 - Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
I punti 577 e ss. del Catechismo della Chiesa Cattolica trattano ampiamente questo argomento e sorprende quindi che simili giudizi vengano dati in modo tanto temerario “in pasto” ai fedeli senza aver prima confrontato le proprie interiori “risonanze” con quanto la Santa Madre Chiesa insegna a riguardo.

L’errore sta tutto nella precisione chirurgica con la quale, negli ultimi anni, si è deciso di dividere “il Gesù misericordioso” dal “Gesù giusto giudice”. A tutto ciò si aggiunga il fatto che non si pone la giusta attenzione su cosa sia effettivamente la Legge. Da una parte vi è infatti la “Legge” di Dio scolpita nella pietra e data a Mosè nei dieci comandamenti; dall’altra la miriade di norme e prescrizioni aggiunte dagli uomini del tempo, che rischiavano di offuscare il senso e il fine ultimo della “vera” Legge.

Ritornando al primo errore, ben più grave del secondo che potrebbe forse essere considerato una dimenticanza, il passo evangelico andrebbe riletto con uno sguardo diverso, più propriamente cattolico e meno personale. Scrive l’abate Dom Prosper Guéranger:
[…] qui la salvezza […] viene dalla misericordia. La colpa di questa donna è reale; la legge la condanna alla morte; i suoi accusatori, chiedendone la pena, sono per la giustizia: eppure la colpevole non perirà. È Gesù che la salva, e per questo beneficio le richiede una sola condizione: che non pecchi più. Quale riconoscenza dovette avere per il suo liberatore! e come, d'ora innanzi, si preoccupò di seguire l'ordine di chi non volle condannarla, ed al quale doveva la vita! Come peccatori, penetriamoci di questi sentimenti verso il nostro Redentore. Non è stato lui a trattenere il braccio della divina giustizia che stava per colpirci, offrendosi a pagare per noi? Salvati dalla sua misericordia, uniamoci ai Penitenti della Chiesa primitiva, e durante questi giorni che ci restano, procuriamo di gettare le solide basi d'una nuova vita.
Parlare dell’ “amore di Gesù” e trarne una deroga all’osservanza della legge è a dir poco fuorviante: Gesù non condanna la legge, non la abolisce, non la cancella, non agisce come se non fosse tale. Dom Guéranger giustamente fa notare come la colpa della donna in questione sia reale, non supposta: è il pentimento vero, che Gesù ravvisa nella donna, a muoverLo a compassione! E in seguito a questo pentimento, Gesù decide di condonarle la condanna.

La chiosa finale si ricollega all’apertura e, semmai fosse possibile, è ancor più pericolosa:
Gesù non perdona la donna, la donna è già perdonata, ma Gesù le comunica la forza per tornare a vivere.
Secondo logica, se da una parte vi è il peccato dell’uomo, dall’altra vi è Chi può rimetterlo, ma se non è Gesù a perdonare la donna, da chi arriva il perdono che, stando all’autore, alla donna è già stato accordato?

Il linguaggio utilizzato è fumoso e niente affatto evangelico: se il Maestro insegna a parlare “sì sì, no no” non può e non deve esserci spazio per la confusione.
Affermazioni di questo genere sono responsabili dell’ignoranza ormai dilagante nei fedeli e prestano il fianco a quel numeroso stuolo di teologi eterodossi secondo il quale l’inferno sarebbe vuoto o, peggio ancora, a posizioni protestanti, secondo le quali “Dio già conosce i nostri peccati e li perdona senza bisogno di confessarli”. Nella dottrina cattolica non c’è, né potrà mai esserci perdono dei peccati senza pentimento autentico e sincero.

Nel brano evangelico, dopo il famoso invito di Gesù a scagliare la prima pietra, Egli rimane da solo con la donna: a parte il breve colloquio, l’evangelista Giovanni non riporta alcuna altra informazione su ciò che effettivamente avvenne. Non sappiamo se ed eventualmente quanto il Maestro e la donna si siano trattenuti, né sappiamo quale fosse l’atteggiamento di lei, se cioè fosse rimasta tutto il tempo in silenzio, oppure se verosimilmente piangesse lacrime amare e implorasse pietà.
Tutto ciò che sappiamo è che Gesù non può non aver scrutato il suo cuore ed è per quanto vi ravvisò che poté accordarle il perdono della colpa. Da ciò si capisce l’espressione di S. Agostino riportata dall’autore poco prima della chiosa finale: “rimangono la misera e la misericordia”. Ma questo non perché la colpa non esistesse o perché l’ “insegnamento di Gesù non si basasse sull’osservanza della legge” ma perché Gesù “giusto giudice” sa essere al tempo stesso misericordioso con chi, come quella donna, si pente e si umilia davanti a Lui.
Nella donna, come in tutti gli uomini, rimarranno le cicatrici, i segni del peccato e rimarrà la pena da scontare in questo o nell’altro mondo.
Questa è la dottrina cattolica, questa è una delle tante verità salutari che i fedeli hanno bisogno di sentirsi ripetere se vogliono salvare la loro anima!

L’autore, subito dopo l’apertura del commento, decide poi di usare questo brano evangelico per “svegliare” le coscienze e scagliarsi contro la pena di morte:
Il tema di questo brano è: in quale Dio credere? Nel Dio legislatore, quello che stabilisce le leggi e che punisce con la pena di morte? O nel Dio creatore che crea la vita, la ama e la difende a oltranza?
Siamo nuovamente di fronte a una dicotomia assurda applicata a Dio: non esistono un “dio legislatore” e un “dio creatore”. Esiste un Dio, allo stesso tempo, Creatore e Legislatore. Lo si vede nella natura, nella legge che Dio vi ha inscritto e lo si vede apertamente nell’Antico Testamento dove lo stesso Creatore protagonista della Genesi, si mostra Supremo Legislatore, consegnando le tavole a Mosè, ma anche Giudice nei confronti degli uomini che si macchiano di infangare il suo Nome e le sue Leggi.

Vale la pena ricordare che nella morale cattolica la pena di morte è sempre stata considerata lecita. Già il Catechismo del Concilio di Trento diceva:
“Rientra nei poteri della giustizia condannare a morte una persona colpevole. Tale potere, esercitato secondo la legge, serve di freno ai delinquenti e di difesa agli innocenti. Emanando una sentenza di morte i giudici non soltanto non sono colpevoli di omicidio, ma sono esecutori della legge divina che vieta appunto di uccidere colpevolmente. Fine della legge, infatti, è tutelare la vita e la tranquillità degli uomini; pertanto i giudici, che con la loro sentenza puniscono il crimine, mirano appunto a tutelare e a garantire, con la repressione della delinquenza, questa stessa tranquillità della vita garantita da Dio. Dice Davide in un Salmo: «Sterminerò ogni mattino tutti gli empi del paese, per estirpare dalla città del Signore quanti operano il male” (Sal 100,8)» (n. 328).”
Nella traduzione latina ufficiale del 1997 del CCC al numero 2267 questa dottrina viene ribadita seppur con una precisazione che meglio risponde alla sensibilità odierna:
“L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall’aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l’ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo «sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti»”.
In linea di principio, il ricorso alla pena di morte rimane lecito: ignorare questo insegnamento per compiacere i potenti di turno o per assecondare la moda del politicamente corretto ormai diffuso a tutti i livelli della società e – ahinoi – del clero è fare del bieco moralismo ed è ripudiare bellamente una parte della dottrina cattolica.

Il giudizio sull’efficacia o meno della pena di morte è e rimane personale e appannaggio di chi è incaricato da Dio della responsabilità di governare gli stati, ma non si pieghi la Parola di Dio per propagandare le proprie idee o quelle di una parte politica.

Davvero c’è di che stare ben poco tranquilli: mi auguro solo che l’autore non sia il parroco… E dire che di commentari ben più solidi e più affidabili ne esistono e sono facilmente reperibili. Per fare un esempio, il famoso sito Maranatha riporta il Commento alle Letture tratto dal Messale dell’Assemblea Cristiana - Festivo, opera del Centro Catechistico Salesiano Leumann (Torino) Editori Elle Di Ci - Esperienze - Edizioni O.R. – Queriniana, ne riporto un estratto:
Una vita ritrovata

Sulla donna adultera pendono le gravi sanzioni della legge (cf Lv 20,10; Dt 22,22.24). Gesù è interpellato e richiesto di un giudizio da parte degli zelanti custodi della tradizione nel perfido tentativo di imbrigliarlo nel vicolo cieco di una risposta in ogni caso compromettente. Il dilemma si gioca sulla scelta tra la legge mosaica e la misericordia che Gesù va insegnando e praticando. Gesù allora fa appello alla coscienza degli accusatori: il loro peccato sta nello sfruttare un caso umano per poter formulare accuse contro di lui. Ma l’intento di Gesù resta chiaro: salvare la peccatrice dall’impietoso giudizio e mostrare il senso della sua missione di messaggero della misericordia divina. Con realismo ed ironia, il vangelo mette in luce la situazione dell’uomo: egli è tanto più peccatore, quanto più è avanzato in età! Non può perciò arrogarsi il diritto di giudicare lo sbaglio di un fratello.

Gesù dà fiducia alla donna che lascia trasparire un umile senso di gratitudine. Egli non condanna, ma ciò non significa indifferenza morale. La sua parola suona come un’assoluzione, congiunta però all’impegno accettato di non peccare più. Il dono della misericordia gratuita ed impensabile diventa responsabilità per una conversione permanente, per una decisione che impegna l’avvenire. Alla donna «perduta» per la legge e per gli uomini, il Signore riconsegna la piena immagine di Dio; da quel momento la vita ritrova il suo significato; il peso di un passato inquietante è tolto (cf prima lettura) e si apre il cammino della speranza.
Ben altro tenore, direi, perfettamente in linea con quanto affermava Dom P. Guéranger.

martedì 30 luglio 2013

Gesù si è incarnato per andare sulla Croce? - 2

A conferma di quanto scrivevo nel precedente post, riporto questo estratto di Padre F. Pollien nel suo Cristianesimo Vissuto (capitolo 19, parte seconda):
Gesù Cristo
[...] 
Ma Gesù Cristo non venne solo a vivere per noi, ma soprattutto venne a morire per noi. Venne ad espiare e a riparare i nostri disordini. E colle sofferenze della Sua vita e coi dolori della Sua morte, Egli espiò i nostri delitti e lavò le nostre sozzure: Egli ci riscattò e ci ricondusse a Dio. La virtù del Suo sangue ci purifica e ci fortifica, ed alle nostre sofferenze comunica il potere d'espiare a nostra volta e di meritare. Le nostre sofferenze, unite a quelle del Salvatore, diventano immensi tesori di santificazione. Perciò la Croce si erge da per tutto dinanzi ai nostri occhi di cristiani, per indicarci che, dovunque nella vita noi incontriamo una pena, la Croce di Gesù è lì per santificarla, trasformarla e darle un merito divino. Oh! la vita con Gesù! Ma soprattutto la sofferenza con Gesù!... gran segreto dei grandi cristiani! Impara che cos'è Gesù Cristo. Impara che cos'è la Sua Croce e potrai dirti cristiano e chiunque t'incontrerà potrà dire: Ecco un cristiano. 
Ah! se tu credessi alle sofferenze di Colui che è il tuo Dio e che volle farsi uomo come te, per morire per te!... Ma tu non le mediti abbastanza e perciò esse non hanno nessuna efficacia nella tua vita. Cristiano distratto, la più piccola notizia curiosa ha maggior imperio sopra di te che la morte del tuo Dio. Paventeresti tanto i sacrifici, se credessi sinceramente al sacrificio della Croce? La tua generosità sarebbe così apatica e pigra, se comprendessi la generosità di Gesù Cristo? È ben triste sentir dire che si crede a cose così sublimi, mentre le azioni nostre sono così meschine. Te ne scongiuro, abbi la fede e metti la tua vita all'altezza della tua fede.
Il tuo Dio aveva forse bisogno di venir a soffrire e morire per te? Chi dunque l'obbligò a farlo? L'amore. Ti amò e morì per te. Tu dici a Lui: mio Dio, ti amo; e non sai neppur vivere per Lui!... E tuttavia hai bisogno di vivere per Lui; questo è il tuo dovere. Se tu comprendessi il Crocifisso! Se sapessi che significato hanno, ai piedi d'una Croce, queste parole: amare, darsi, prodigarsi, sacrificarsi!... Mettiti dunque una buona volta ai piedi del tuo Crocifisso, ed a Colui che visse e morì per te chiedi di saper vivere per Lui. Vivere per Lui, vale a dire darti, prodigarti, sacrificarti, il che in una sola parola significa amare. Ai piedi della Croce impara ad essere cristiano.
 

venerdì 14 giugno 2013

Gesù si è incarnato per andare sulla Croce?

Per rispondere "sì!" a questo quesito basterebbe probabilmente il solo Vangelo, ma - si sa - gli uomini sono tutti dei piccoli San Tommaso (Apostolo) e per credere vogliono continuamente mettere "il dito nel segno dei chiodi", quindi... la tesi è questa: 
Gesù Cristo non è venuto sulla terra (sarebbe meglio dire, si è incarnato) per essere messo in Croce, ma per instaurare il Regno del Padre, che è un regno di amore.
La Croce sarebbe solo una specie di incidente di percorso, un effetto collaterale, qualcosa che, come si è manifestato, poteva anche non manifestarsi. Non solo, qualcuno addirittura aggiunge che Gesù non sarebbe venuto a conoscenza di questo suo tragico epilogo, se non nell’orto del Getsemani.

Partirei proprio da questa ultimo asserzione: tutti e tre i Vangeli sinottici sono concordi nel riportare, non uno, ma tre episodi nei quali Gesù annuncia esplicitamente la sua Passione, Morte e Resurrezione (Mt 16, 21; 17, 22-23; 20, 17-19. Mc 8, 31; 9, 31; 10, 32-34. Lc 9, 22; 9, 43-44; 18, 31-33). È evidente che tutti e tre questi annunci avvengono ben prima dell’agonia del Getsemani.

Pertanto, ammesso e non concesso che Gesù fosse ancora all’oscuro dei modi e dei tempi della sua futura Passione, come si possa affermare che Gesù ne sia venuto a conoscenza solo nel corso di quell’agonia o comunque a ridosso di quella, francamente lo trovo assurdo.

Trovo ancora più assurdo poi che una tale tesi venga propugnata nei libri di teologia, dal momento che le conseguenze della loro diffusione non potrebbero essere meno che nefaste. Purtroppo è proprio così!

Andrebbe poi notato che, anche il Vangelo di Giovanni, nel racconto della Passione, dice: «Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli […]» e non usa quindi espressioni del tipo “avendo appena realizzato quello che…” oppure “avendo appreso che…”.

Inoltre, dal Concilio di Efeso è verità di Fede che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo: due nature distinte unite nella medesima persona. L’unione delle due nature si è compiuta senza che una disturbasse l’altra, ma è ovvio che la natura divina illuminava quella umana. Quindi, in quanto Logos incarnato, Gesù non poteva non conoscere fin nei minimi particolari i disegni del Padre, perché se così fosse la dignità divina di Gesù ne uscirebbe in qualche modo diminuita.

Tanti sono i Padri e i Dottori della Chiesa che hanno parlato e scritto sia del rapporto tra le due nature di Gesù, sia di quella notte di agonia. Ne riporto alcuni:
  • San Leone Magno (Sermone, V): «Sarebbe grave errore credere che Gesù Cristo, con questa preghiera: “Passi da me questo calice”, abbia – per un solo istante – voluto declinare la morte, già da lui accettata fin dal primo istante della sua incarnazione; già da lui perpetuata nell'istituzione dell'eucaristia»; 
  • Sant'Agostino (Trattato CXII, In Gv.): «Gesù Cristo, come figlio di Dio, aveva firmato egli stesso, d'accordo col Padre celeste, il decreto della sua passione e morte. Non poteva, perciò, ricusarla; poiché era l'autore, l'artefice di questo calice amaro»; 
  • San Tommaso (III p., q. XLVI): «Bisogna ricordare che in Gesù Cristo la ripugnanza della volontà umana dalla sua volontà divina, fu ordinata e disposta dalla stessa sua volontà divina. Ora, nel divin Redentore, la volontà umana fu sempre interamente sottomessa alla volontà divina»;
  • San Giovanni Crisostomo (Omelia VII, In epistola agli Efesini): «Con la sua preghiera, Gesù Cristo si manifestò quale egli era, e mise in salvo tutti i suoi privilegi. Si rivelò naturalmente immortale, nel momento stesso in cui si assoggettava alla morte; conservò la sua dignità di figlio di Dio, mentre si sottomise alla condizione dell'uomo; rese al divin Padre il culto che gli era dovuto, perché obbedì per amore, mentre gli parla con la sicurezza e la familiarità di un figlio»;
  • San Leone Magno (Sermone, LVI): «Sebbene il Signore, nel Getsemani, parli il linguaggio della nostra natura, misera, paurosa, tremante, non lo parla però come noi. Egli non parla un linguaggio suo proprio, ma come un linguaggio preso in prestito da noi, come un linguaggio conveniente all'umile personaggio che rappresenta, cioè all'uomo peccatore. Parla come uno di noi, perché parla per noi»;
  • Sant'Agostino: «II Signore, dicendo: “Passi da me questo calice, però non la mia, ma la tua volontà sia fatta”, dichiara che non è possibile all'uomo salvarsi senza l'amara medicina della morte; senza bere il calice dell'umiliazione e del patimento» (Sermone LXXXI, De temp.). «Gesù Cristo fu come un medico pietoso, il quale, sebbene sano, appressò per primo le labbra alla medicina amara, affinché, sul suo esempio, gli infermi non avessero difficoltà di trangugiarla. Non diciamo, dunque: non ho voglia, non ho forza di bere il calice dei patimenti che Dio mi manda; poiché il nostro Salvatore divino fu il primo a berlo sino alla feccia» (Sermone LXXXVIII, De temp.).
Aggiungerei, che nella più perfetta, sublime e divina obbedienza al Padre, Gesù si è docilmente disteso sulla Croce, facendola così diventare, da orribile strumento di tortura e di morte, la via maestra della consolazione e della vita eterna.

È possibile inoltre vedere una certa causalità tra il periodo storico in cui è avvenuta l’Incarnazione e le “modalità” della Passione stessa: forse è un po’ ardito, ma non credo sia errato pensare che se fosse avvenuta ai nostri giorni, Gesù sarebbe forse stato condannato alla sedia elettrica, all’iniezione letale o all’impiccagione. Come probabilmente sarebbe stato condannato alla ghigliottina se fosse nato tre secoli fa. Scegliendo invece di nascere da donna nel bel mezzo del dominio dell’Impero Romano, Gesù non poteva non essere cosciente dei metodi usati dai pagani invasori della Terra Santa. L’Onniscienza divina di cui godeva non poteva ignorare questo fatto.

In definitiva, dubitare dell’effettiva conoscenza del Figlio sull’epilogo della sua esistenza terrena (il che comporta evidentemente anche il rischio di dubitare della necessità o dei modi del Sacrificio stesso), implica un indebolimento sostanziale della natura divina di Gesù e di conseguenza indebolisce la natura della Santissima Trinità. In una parola, è un’eresia.

Vengo infine alla parte più corposa di questa mia: affermare che Gesù non si è incarnato per salire sulla Croce, comporta il crollo dell’intera teologia della Redenzione e della Salvezza, perché Redenzione e Salvezza non possono esistere senza la Passione e la morte sulla Croce, come viene ampiamente messo in luce dall’estratto di seguito, preso da "La bella addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà”, della benemerita coppia di giornalisti A. Gnocchi e M. Palmaro (pagg. 201-207):
La Croce e il mistero pasquale

[Per comprendere che cosa sia cambiato in questi decenni, bisogna por mente a due correzioni apportate da Benedetto XVI nelle celebrazioni liturgiche papali subito dopo la sua elezione nel 2005. Due evidenti restaurazioni che hanno fatto strillare al tradimento del Concilio: il ripristino della Croce al centro dell'altare e la comunione ricevuta in ginocchio e sulla lingua. Con tale scelta, Benedetto XVI ha messo in evidenza che la crisi liturgica e la crisi dottrinale del mondo cattolico sono state generate e accompagnate dal progressivo oscuramento della Croce.]

Questo fenomeno è dovuto a una teologia che ha assorbito il concetto classico di Redenzione in quello di mistero pasquale. In tal modo, insieme alla nozione di Redenzione, passano in secondo piano la necessità di soddisfare la giustizia divina, la Passione di Gesù e la cooperazione dell'uomo, mentre vengono esaltati l'amore, l'iniziativa di Dio e la nuova vita della Resurrezione. Una delle sintesi più efficaci di questa impostazione si trova nel saggio Qu'est-ce-que le mystère pascal (Cos'è il mistero pasquale) pubblicato nel 1961 da Aimon-Marie Roguet, che poi sarà membro del Consilium per l'attuazione della riforma: «Come un'offesa infinita può essere soddisfatta? Come l'innocente può pagare per il colpevole? È da deplorare che per molti dei nostri contemporanei, la Redenzione si presenti in questi termini. Certi, infatti, ne sono scandalizzati nel loro senso di giustizia e trovano nella Redenzione così presentata un'obiezione insuperabile contro la bontà di Dio. Se fosse veramente Padre, sarebbe un Dio contabile così esigente e trasferirebbe la sua collera sul suo Figlio diletto? Nella presentazione del mistero pasquale, invece, non si incontrano questi scogli. Infatti, in esso la nostra salvezza appare operata da un atto vitale e gratuito, una libera iniziativa di Dio, uscita totalmente dal suo amore misericordioso».
Una nuova concezione di peccato

In questa luce, non avendo più lo scopo di soddisfare la giustizia divina, la Passione e la Croce di Nostro Signore sbiadiscono fino a perdere di senso. Perché soffrire, se è inutile? Ma se la Redenzione è opera di un amore che ignora la giustizia, se è Dio ad andare in cerca dell'uomo senza che l'uomo vada in cerca di Dio, è evidente che cambia la nozione di peccato.

Il ragionamento che sostiene questa tesi parte da una premessa formalmente giusta, ma non sufficiente: come l'omaggio di una creatura nulla aggiunge a Dio, così l'offesa nulla Gli toglie. A corollario di tale teorema si pone in evidenza che il peccato porta pregiudizio solo all'uomo peccatore. La premessa, vera sul piano formale, veicola una volontaria ambiguità perché omette di spiegare che, se il peccato non lede la natura di Dio, lede il suo diritto a essere adorato e obbedito. La teologia classica ha sempre spiegato che il peccato è un'ingiuria all'onore di Dio misurata in base alle esigenze della maestà divina, piuttosto che in base ai danni causati al peccatore stesso. Siccome Dio ha creato tutto per la propria gloria, l'uomo deve ordinare ogni sua azione a tale fine e, ove non lo faccia, si costituisce peccatore e contrae un debito di giustizia.

Secondo la nuova visione teologica, invece, il peccatore porta pregiudizio solo a se stesso e alla società, ma solo indirettamente a Dio. In quest'ottica, come scrisse Emile Mersch in Cristo, l'uomo e l'universo. Prolegomeni alla teologia del Corpo mistico, la Redenzione «non ha lo scopo di restituire qualcosa a Dio, ma di restituire Dio all'uomo».

L'evidente natura antropocentrica di tale prospettiva va contro l'insegnamento di san Paolo, secondo cui il peccato comporta la collera di Dio, che si esprime già su questa terra con delle pene, ma si manifesterà soprattutto nell'ultimo giudizio.
Fenomenologia di un capovolgimento

Dall'affermazione che l'opera redentrice di Cristo ha come scopo la sola rivelazione dell'amore del Padre, conseguono due cambiamenti radicali nella teologia della Redenzione. Il primo consiste nell'attribuire quest'opera più a Dio Padre che a Cristo come uomo. Quest'ultimo diverrebbe solo il "luogo" nel quale Dio salva l'umanità manifestando il proprio amore. Il secondo cambiamento consiste nel trasferimento dell'atto principale della Redenzione dalla morte di Cristo alla sua Resurrezione e Ascensione. «Chi parla di Redenzione – dice Roguet nel suo saggio sul mistero pasquale – pensa anzi tutto alla Passione e poi alla Resurrezione come a un completamento. Chi parla di Pasqua pensa anzi tutto a Cristo resuscitato. La Resurrezione non appare più come un epilogo, ma come un termine e il fine nel quale si riassume il mistero della salvezza».

La sintesi mostra il capovolgimento di orizzonte. La teologia classica, secondo l'insegnamento di san Paolo, non eclissava il ruolo della Resurrezione, ma come spiega Roguet, la subordinava alla Passione e alla Croce. Pochi anni prima del Concilio, nel 1956, papa Pio XII la sintetizzava nell'enciclica Haurietis Aquas:

Il Mistero della Divina Redenzione, infatti, è propriamente e naturalmente un mistero di amore: un mistero, cioè, di amore giusto da parte di Cristo verso il Padre celeste, cui il sacrificio della Croce, offerto con animo amante ed obbediente, presenta una soddisfazione sovrabbondante ed infinita per le colpe del genere umano […] Pertanto il Divin Redentore – nella sua qualità di legittimo e perfetto Mediatore nostro – avendo, sotto lo stimolo di una accesissima carità per noi, conciliato perfettamente i doveri e gli impegni del genere umano con i diritti di Dio, è stato indubbiamente l'autore di quella meravigliosa conciliazione tra la divina giustizia e la divina misericordia, che costituisce appunto l'assoluta trascendenza del mistero della nostra salvezza, così sapientemente espressa dall'Angelico Dottore in queste parole: «Giova osservare che la liberazione dell'uomo, mediante la passione di Cristo, fu conveniente sia alla sua misericordia che alla sua giustizia. Alla giustizia anzitutto, perché con la sua passione Cristo soddisfece per la colpa del genere umano: e quindi per la giustizia di Cristo l'uomo fu liberato. Alla misericordia, poi, poiché, non essendo l'uomo in grado di soddisfare per il peccato inquinante tutta l'umana natura, Dio gli donò un riparatore nella persona del Figlio suo. Ora questo fu da parte di Dio un gesto di più generosa misericordia, che se Egli avesse perdonato i peccati senza esigere alcuna soddisfazione. Perciò sta scritto: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore che ci portava pur essendo noi morti per le nostre colpe, ci richiamò a vita in Cristo».
Concludendo, certamente era (ed è) volontà di Gesù instaurare il Regno del Padre, che è giustamente un regno d’amore, ma se è vero che «non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13), tale instaurazione non poteva che passare proprio per la Croce, perché solo Gesù, in quanto la più pura tra le vittime, la più innocente, la vittima gradita per eccellenza, poteva offrirsi per redimere l’intera natura umana corrotta dal peccato di Adamo (questo aspetto meriterebbe una più ampia trattazione e non posso far altro che rimandare alla questione XLVI, III parte, della Summa Teologiæ di S. Tommaso che, in estrema sintesi, dimostra come nell’“economia” della Redenzione, non solo fu necessaria l’immolazione del Figlio, ma in particolare anche la sua morte in Croce).

domenica 9 giugno 2013

Riparazione e SS. Eucaristia

Inizio con questo post - prendendola un po' alla lontana, a dire il vero - a trattare un argomento che mi sta molto a cuore e che dovrebbe stare a cuore ad ogni buon cattolico, cioè il SS. Sacramento dell'Eucaristia e come negli ultimi decenni se ne stia smarrendo il vero significato, con conseguenze niente meno che nefaste.

Di recente in numerosi blog cattolici è stato ripreso l'ultimo editoriale di Radicati nella Fede (vedi qui) centrato sulla necessità della riparazione, altro aspetto smarrito nei meandri di un cattolicesimo volutamente considerato vecchio e da rinnegare.

Mi piace rileggere quell'editoriale anche alla luce di come la solennità del Sacro Cuore di Gesù viene oramai presentata e bistrattata: ho assistito - mio malgrado - a una celebrazione in cui il celebrante ha tenuto un'omelia al limite dell'oltraggioso. Mai e poi mai un fedele ignaro del significato vero e ultimo di questa festa avrebbe potuto tornare a casa con le idee ben chiare! Le uniche parole spese per il Sacro Cuore sono state per dire che il Cuore di Gesù è la sede del suo Amore per noi. Stop.
Nessun accenno a Santa Margherita Maria Alacoque, nessun accenno alla pia pratica dei primi nove venerdì del mese e alle promesse connesse, nessun accenno al significato delle spine che avvolgono il Sacratissimo Cuore e infine, per l'appunto, nessun accenno alla necessità di riparare alle offese e ai dolori che continuamente gli uomini Gli infliggono.

Recuperare il senso della riparazione è certamente fondamentale affinché la Chiesa esca da questa profondissima crisi, ma ritengo che primariamente andrebbe recuperato il senso vero e autentico della Sacra Eucaristia, altrimenti non avrebbe senso parlare di riparazione senza precisare la natura e l'entità dell'offesa da riparare e, ancora di più, senza avere piena coscienza di Chi è l'oggetto dell'offesa (ammesso si ritenga ancora l'uomo in grado di offendere Dio, cosa nient'affatto scontata!).

Infatti se davvero «il più grande di tutti i sacramenti è quello della Eucaristia, perché contiene non solo la grazia, ma anche Gesù Cristo, autore della grazia e dei sacramenti (§546 Catechismo Maggiore di San Pio X)», una sua comprensione distorta (ovviamente per quanto la ragione umana può comprendere, sappiamo bene come questo Mistero sia insondabile!) comporterà certamente, non solo una diminuzione del numero e della portata delle Grazie che altrimenti ne scaturirebbero, ma ben presto avrebbe anche fortissime ripercussioni su tutta la vita della Chiesa, dalle più alte gerarchie al più semplice dei fedeli, come pure a tutti coloro che ancora devono ricevere la Lieta Novella.

Mi sembra di poter dire che tanto sotto l'aspetto sacrificale, quanto sotto l'aspetto sacramentale, la tradizionale dottrina cattolica sull'Eucaristia ha subito delle variazioni sostanziali:

  • nel primo caso, già autorevoli teologi hanno praticamente detto tutto quanto c'era da dire, sia per quanto riguarda la dottrina dei quattro fini per i quali viene offerto l'Augusto Sacrificio della Santa Messa che non si considera, né la si insegna più, sia per quanto riguarda il concetto stesso di Sacrificio e di ripresentazione del Sacrificio della Croce, che si vorrebbero scansare con sempre maggior forza;
  • nel secondo caso, invece, mi sembra che sotto silenzio sia passato una variazione che, se per certi versi e in alcuni contesti, potrebbe apparire giustificata, per altri appare come una manovra destabilizzante, la quale ha pian piano generato molte delle aberrazioni liturgiche e dei travisamenti teologici dei nostri giorni. È oramai invalso l'uso di tradurre il concetto di Passione con quello certamente più ampio di Pasqua, col risultato che, laddove il fedele era portato a pensare alla Passione del Signore, iniziata nel Getsemani e conclusasi sul Golgota, ora il suo pensiero va direttamente al giorno della Risurrezione.
Un esempio? Si prenda il testo latino del celebre O Sacrum Convivium:

O sacrum convivium!
in quo Christus sumitur:
recolitur memoria passionis ejus:
mens impletur gratia:
et futurae gloriae nobis pignus datur.
Alleluia.

La cui traduzione ufficiale della Liturgia delle Ore CEI riporta:

Mistero della Cena!
Ci nutriamo di Cristo,
si fa memoria della sua passione,
l'anima è ricolma di grazia,
ci è donato il pegno della gloria, alleluia.

Quante sono invece le traduzioni che rendono "Pasqua" al posto di "Passione"?
Nelle recenti celebrazioni del Corpus Domini, il copione è stato lo stesso, l'orazione

Deus, qui nobis sub sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti, tríbue, quæsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári, ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus. Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitáte Spíritus Sancti, Deus, per ómnia sæcula sæculórum.

viene resa con

Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell'Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa' che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue, per sentire sempre in noi i benefici della redenzione. Tu sei Dio...

Certamente, qualcuno dirà, il Mistero Pasquale comprende Passione, Morte e Risurrezione, ma perché mai la Santa Madre Chiesa si sarebbe per secoli riferita all'Eucaristia in un modo, per poi improvvisamente corregger il tiro dopo secoli? Forse che volesse veramente intendere Passione e non Pasqua? Non credo sia un caso se il vecchio Catechismo di San Pio X, al punto 623, recitava:

Perché Gesù Cristo ha istituito la santissima Eucaristia?

Gesù Cristo ha istituito la santissima Eucaristia per tre principali ragioni:
Perché sia sacrificio della nuova legge. 
Perché sia cibo dell'anima nostra.
Perché sia un perpetuo memoriale di sua passione e morte, ed un pegno prezioso dell'amor suo verso di noi, e della vita eterna.

lunedì 22 aprile 2013

Precisazioni

Qualcuno potrebbe obiettare che quanto esporrò di qui a poco non sia necessario o addirittura fuori luogo. Quel che è certo è che queste considerazioni mi ronzano in testa da almeno una settimana e l'idea di non poterle argomentare in modo preciso e - vivaddio! - con un po' di calma,  mi provoca un leggero senso di inquietudine. Inoltre ci tengo molto a spostare l'oggetto del contendere lontano dall'acredine e dall'animosità che Facebook provoca (probabilmente a causa del distacco dovuto allo star dietro ad uno schermo): quante sono le cose che, di persona, si eviterebbe di dire se non esistesse quel sottile strato di anonimato...

Piccola premessa: vorrei fosse chiaro fin da subito che non ho, né ho mai avuto, alcuna intenzione di esprimere giudizi sulle persone. La buona fede e la buona volontà non sono mai state, da parte mia, neanche lontanamente messe in discussione. Ciò che però non mi posso esimere dal fare è esprimere un giudizio sui fatti. Cosa tra l'altro squisitamente cristiana se è vero, come è vero, che lo stesso San Paolo ci dice "vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono" (1Ts 5, 21) e quindi, come vagliare un fatto senza giudicarlo? Dico questo perché nella miriade di commenti che mi si è scagliata contro  sono stato accusato, per l'appunto, di giudicare le persone, di disprezzare l'impegno di chi si mette in gioco per il bene di tutti, di essere facile alla critica non costruttiva e di molte altre cose, alcune delle quali niente affatto ragionevoli ma direi piuttosto basse.

E ora, i fatti: nel mio paese natio è stato recentemente costituito un Comitato Cittadino (d'ora in avanti, per brevità, CC). La notizia di questa iniziativa è stata riportata da tutti i giornali locali ma, per le ragioni che dirò, fin da subito non mi ha entusiasmato.

Conosco molte delle persone che lo hanno fondato e molte di quelle che hanno preso parte agli incontri  che si sono susseguiti: tutte persone degnissime e animate da un grande spirito di coesione, nonché dalla volontà di mettersi a disposizione per il paese. Semmai ce ne fosse bisogno, basterebbe verificare l'impegno che hanno messo, e ancora mettono, non solo nelle rispettive professioni, ma soprattutto nell'organizzazione dell'annuale Sagra dei Santi patroni e nelle numerose altre occasioni collegate alla comunità (che mi piace pensare ancora) cristiana, attraverso le attività del più "rodato" Comitato Fiera (CF).

Insieme e in stretta collaborazione con il CC, è stato creato anche un giornalino di informazione: secondo le intenzioni degli ideatori, una sorta di think tank virtuale, in grado di ospitare riflessioni, confronti, approfondimenti, ecc., su tutto quanto concerne la vita del paese.

Come dicevo, dal momento che inizialmente l'idea del CC non suscitava il mio interesse, non ho indagato oltre; ma ecco che, "come per magia", la prima pagina del giornalino viene pubblicata su di una pagina Facebook alla quale sono iscritto, offrendomi, su un piatto di argento, la possibilità di saperne di più.

Devo ammetterlo: niente di più gradito! Se non che le prime righe catturano da subito la mia attenzione: in primo luogo, sotto la testata noto la dicitura
"Mensile di carattere informativo apolitico in collaborazione con il Comitato Cittadino"; 
in secondo luogo, l'articolo di apertura inizia così:
«L'autunno scorso, a seguito delle riunioni intraprese da alcuni cittadini di ..., è stato formato un apposito Comitato Frazionale apolitico, con il compito d'individuare le problematiche e le opere necessarie al miglioramento della qualità della vita nella nostra frazione.»
Decido quindi di commentare in questo modo:
«Bell'iniziativa, ma l'esser apolitici non è una virtù. In questo campo, ogni atto, ogni decisione e prima ancora, ogni idea, presuppone un giudizio politico, quand'anche non fosse da attribuire a un particolare schieramento. Far politica con comitati apolitici non ha molto senso.»
A scanso di equivoci, nei commenti successivi viene immediatamente chiarito che trattavasi di un "banale" refuso: il termine da utilizzare sarebbe dovuto essere apartitico.
La cosa mi è parsa subito un po' bizzarra: sembra una banalità, ma i due termini dipingono due realtà completamente diverse. Mi rendo conto che, per chi conosce bene l'iniziativa, vuoi in qualità di collaboratore, vuoi in qualità di semplice cittadino ben informato, il problema quasi non si pone. Va da sé che non siamo tutti scrittori o giornalisti, come non siamo tutti artigiani, coltivatori, politici o quant'altro; per dirla con San Paolo - di nuovo lui! -, molti sono i carismi, "ma uno solo è lo Spirito" (1Cor 12, 4).  Ciò che però dovrebbe essere altrettanto chiaro è che non tutti possono essere tanto ben informati da sopperire a certe imprecisioni.

Quand'anche il termine utilizzato in prima battuta fosse stato apartitico l'impianto della critica non sarebbe cambiato di molto. Appena lette quelle primissime battute, il mio pensiero è subito andato a un magistrale articolo di Mario Palmaro pubblicato sul numero n.121 de Il Timone, mensile di informazione e formazione apologetica, dal titolo Tecnocrazia, la fine della democrazia?, il quale recita:
«Il modello istituzionale del governo tecnico presenta alcune caratteristiche peculiari: il tecnico non appartiente ad alcuna forza politica; non viene scelto dal voto popolare; non ha bisogno di coltivare o di difendere il consenso dell'opinione pubblica; non esprime una visione del mondo almeno formalmente ideologica; viene certificato come molto competente in materie considerate oggi strategiche, come economia e finanza; rappresenta la quintessenza della laicità dello Stato poiché la sua fede non conta, essendo decisiva solo la sua bravura nel fare. 
La parabola personale di Mario Monti ha incrinato in maniera evidente alcune di queste "certezze": ad esempio, non di rado il tecnico nasce apartitico, ma poi lo si scopre sostenuto da alcune forze politiche e osteggiato da altre, o addirittura leader di partito. Monti si è presentato sulla scena come un economista prestato alla politica, per poi diventare uno dei protagonisti del teatrino elettorale. Il che rivela un primo dato antropologico incontrovertibile: e cioè che ogni uomo, anche se privo di tessere di partito, esprime una certa visione politica. Il tecnico puro è, in altri termini un mito.»
È chiaro che non si sta parlando di governo dello Stato, né di chissà quali ideologie o della verifica di chissà quali teorie economiche ma, fatte le debite proporzioni, non ci si può non rendere conto che, da quanto successo negli ultimi mesi in Italia, c'è da imparare una grande lezione. Ogni uomo esprime una certa visione politica e questo, sia che si tratti della politica nazionale, sia che si tratti della politica di una minuscola frazione. Si pensi, ad esempio, al dover destinare i fondi raccolti da una qualsiasi iniziativa benefica: ci potrà essere chi intende destinarli alla tal causa e chi alla talaltra, chi intende trattenerne una parte per coprire le spese sostenute e chi no, ecc.

A mente fredda e dopo qualche giorno, un mio caro amico, mi faceva notare come, secondo lui, un ulteriore motivo per essere più morbidi e indulgenti verso questi "errori di gioventù", stia nel fatto che i cittadini che hanno dato vita al CC sono comunque animati dalla volontà di perseguire il "bene comune del paese"; ma questo altro non è che l'obiettivo di ogni associazione politica. Il vero problema sta nel capire in cosa consista questo bene comune! Volendo divagare e volendo essere precisi e pignoli (altra cosa di cui sono stato accusato) le concezioni di bene comune sarebbero da ricondurre ad almeno quattro grandi visioni (in questo mi viene in soccorso il professor Giacomo Samek Lodovici che riesce sempre a rendere questi argomenti di facile comprensione, in particolare cfr. Il bene comune, Il Timone n.113):
  • il liberalismo, secondo cui il bene comune della società è la somma dei beni individuali;
  • l'utilitarismo, secondo cui, consistendo il bene comune della società nella massimizzazione globale dei beni individuali, è possibile perseguirlo a scapito del bene di alcuni soggetti;
  • il comunismo, secondo il quale ogni bene è comune e non esistono beni privati;
  • il personalismo, visione propria della Dottrina Sociale della Chiesa Cattolica, per cui il bene comune è un bene in comune, cioè «non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale» ma «è di tutti e di ciascuno», cioè il bene dell'altro è una componente del mio bene.
L'argomento è talmente vasto che non vale la pena invischiarvisi; ad essere onesto non ne sarei neanche capace. Quel che è certo è che spesso e volentieri non è molto conveniente fare uso di certi termini in pubblico, se non li si padroneggia appieno: potranno garantire il plauso immediato di chi se ne lascia impressionare, ma rimane il rischio che si rivelino autentici boomerang.

Mi piace pensare, poi, che questo giornalino aspiri ad avere un respiro un po' più ampio dei soli aderenti al CC: in definitiva, più preciso è il linguaggio utilizzato (soprattutto riguardo alla natura del comitato e delle iniziative), più precisa sarà l'idea che una qualsiasi persona potrà farsi del CC stesso. Mi sembra, tutto sommato, una forma molto alta di rispetto nei confronti dei lettori.

Tra i tanti e tanti commenti, mi è sembrato di scorgere una sorta di intolleranza alla critica, o meglio, a quel tipo di critica ritenuta "non costruttiva". Mi si dica - di grazia - in primo luogo, qual è la definizione di critica costruttiva e, in secondo luogo, per quale motivo la critica "costruttiva" è ritenuta la sola in grado di far maturare la realtà del comitato (o di qualsiasi altra iniziativa). Ho come l'impressione che per "critica costruttiva" si intenda in realtà una sorta di lode mal dissimulata e, si sa, di lodi non se ne ascoltano mai abbastanza.

Scriveva uno dei responsabili del CC che il giornalino è nato senza una particolare linea politica - ma il  CC no! Quello un minimo di linea politica la dovrà pur avere! - e soprattutto che politica "vuol dire dialogare, mediare e ragionare". Troppo semplice: politica significa certamente tutto questo, ma non solo! Il dialogo non è sempre possibile, come non è sempre possibile conciliare (mediare per l'appunto) posizioni molto distanti e, in ultima istanza, anche chi si sforza di ragionare, in politica, è troppo spesso merce rara. Che lo si voglia o no, la politica è fatta anche di scontri, alcuni corretti, alcuni meno, altri talmente aspri da divenire dimentichi del rispetto da riservare a chi andrebbe trattato come un avversario e non come un nemico. Anche da questi scontri è però possibile trarre grandi insegnamenti: sono queste le situazioni in cui cadono le maschere, in cui, chi crede veramente nelle sue posizioni, lotta con tutti i mezzi a sua disposizione per difenderle.

Credo poi che, tra la gente, qualcuno non riesca a distinguere dove finisca il Comitato Cittadino e dove inizi il Comitato Fiera, probabilmente perché molte delle persone coinvolte operano sia nel primo che nel secondo. È una situazione un po' ambigua che meriterebbe di esser chiarita: il primo fa (o dovrebbe) far politica per ammissione stessa dei suoi esponenti; il secondo fa beneficenza e opera nell'alveo delle iniziative parrocchiali. La politica ha, giocoforza, delle regole diverse dalla beneficenza e ignorarlo non può far altro che ingenerare confusione, cosa che non è certamente nell'interesse del CC, né in quello della parrocchia.

Resto dell'avviso che la politica si debba fare in modo chiaro, a viso aperto, mettendo sul tavolo tutte le carte: noi siamo il tal partito/movimento o la tal associazione, ci siamo dati questa denominazione, ci ispiriamo a questi valori, veniamo da queste esperienze politiche/lavorative/associative/sindacali e vogliamo arrivare in quella data posizione, vogliamo portare avanti gli interessi di questo gruppo di persone, di queste istanze, ecc.: è questa, in ultima analisi, la mia più grossa critica.

Per concludere, se il CC si pone come obiettivo quello di "svegliare le coscienze" e di aumentare il senso civico dei cittadini, in modo tale che questi possano impegnarsi maggiormente, sentirsi più coinvolti, e - perché no? - decidere di spendersi in modo più deciso e numericamente più rilevante nell'ambito delle istituzioni, allora ben venga il CC.
Diversamente, se il comitato mira invece a coltivarsi un piccolo e poco lungimirante orticello, fatto di qualche buona ma estemporanea iniziativa, allora è già tempo di correre ai ripari e raddrizzare la rotta, perché dal comitato potranno anche nascere le migliori proposte per il paese, ma se non ci sarà chi le porti avanti nelle famigerate stanze dei bottoni, rimarranno solo proposte e, statene certi, i fiumi di parole spesi coi sindaci e gli assessori di turno serviranno a ben poco.